jeudi 24 mars 2016

Treni e autopostali

Linea 62.131

TILO e dintorni
Mi son trovato tra le mani, su segnalazione di un amico, un libretto edito da Casagrande, il cui titolo è Negli Immediati Dintorni: Guida letteraria tra Lombardia e Canton Ticino. Si tratta di ventiquattro storie, o forse è meglio dire ventiquattro ricordi di ventiquattro autori il cui filo conduttore comune è la linea ferroviaria del TILO: ”Il treno amico” Ticino-Lombardia. In realtà sono ventitré storie in prosa, cui si aggiunge un racconto grafico, squarci di vita sul treno colti a matita attraverso ritratti di anonimi utenti. Piacevole.
A me capita spesso di prenderlo il Tilo: quello vero e quello ideale.
Nel mio Tilo vero Bellinzona, Biasca, Locarno, Lugano (li dico in ordine alfabetico, per non offendere nessuno) sono i miei capilinea abituali. Qualche volta aggiungo Mendrisio; in un paio di occasioni anche Chiasso.  Mai però, finora, la linea intera Biasca-Milano. Il mio Tilo ideale, invece, è quello che dovrebbe andare fino a Goeschenen (e da lì, su fino alle piste di Andermatt), o magari fino ad Amsteg, in modo da prendere e deporre i passeggeri lungo le valli della vecchia linea. Sarebbe una vera e propria metropolitana regionale di montagna che permetterebbe la congiunzione delle località periferiche delle valli con le località centrali sia a nord, sia a sud del Gottardo. Dal lato turistico, d’inverno servirebbe le stazioni sciistiche presenti nel massiccio del Gottardo (Nara compreso), mentre d’estate, servirebbe i sentieri escursionistici sui pendii del Ticino, del Brenno e della Reuss. Anche se poi, è vero che d’estate, andar d’auto, è più facile. È qualcosa su cui riflettere adesso, perché il 2017, quando le Ferrovie federali non garantiranno più il mantenimento della vecchia linea ferroviaria, è dopodomani.

Ciao, grazie!
Van de Sfroos ha scritto anni fa una canzone sulla corriera (la “poschta”, diremmo noi). Anche in questa canzone, come nel libro sugli immediati dintorni, si tratta di storie di vita quotidiana, fatte di incessanti convergenze: stesse fermate, stesse persone alle stesse fermate, stessi incontri lungo la strada agli stessi orari. Inutile guardare l’orologio: quando incrociamo la Subaru nera del Giuan, sappiamo se siamo in orario, in anticipo o in ritardo. Se non la vediamo, allora sorge il dubbio: magari è domenica! Tò! Guarda! La Cesca, oggi ha messo i pantaloni: mi sa che arriva la neve. E la Rosy, dov’è? che avrà? Ieri tossiva: e poi, non ha più vent’anni.

 La corriera del Van de Sfroos potrebbe benissimo essere la Biasca-Olivone. Ogni linea ha le sue storie, i suoi passeggeri, i suoi autisti, le sue vicende che potrebbero essere raccontate, imperniate attorno alle strade oggi percorse dalle Autolinee Bleniesi. A me capita spesso, quando sono in zona, di prendere la tratta Olivone-Biasca (o Biasca-Olivone che dir si voglia) e comincio ad affezionarmici. Mi piace osservare i passeggeri, ascoltarli parlare con quella melodia e con quelle espressioni dialettali particolari da Biasca in su (o dal Lucomagno in giù?). Impossibile, per me, definirle, perché non sono un linguista: ma godermele, sì.

E poi è tutto un altro mondo per chi, come me, viene da una città come Ginevra: qui, sui tram e sui bus, nessuno parla e a volte siamo come sardine. Se qualcuno parla, magari forte, o è un gruppo di mendicanti Rom che torna dal lavoro o è un regolare cittadino che sta trattando i suoi affari al telefonino. Si entra nel veicolo … quando si può: si esce dal veicolo … quando si può! E l’autista? Per ora c’è ancora, ma prima o dopo toglieranno anche quello.

Sulla linea del “Tilo bleniese”, dicevo, è tutto un altro mondo. Un giorno salendo in valle, carico come un mulo, nel cambiare bus dimentico il mio zainetto! Troppo tardi, ormai siamo già ripartiti, ma lo dico all’autista che mi risponde”non si preoccupi”. Scendo ad Olivone e lì, senza nessuna complicazione particolare, non mi resta che aspettare lo zainetto: arriva con il bus seguente!  Un’altra volta (maledetto zainetto) lo dimentico sulla panchina della fermata di Olivone, e dentro c’è il mio computer di lavoro. Ci penso un attimo e poi ringrazio chi ha inventato il sistema di biglietti Arcobaleno: guardo gli orari, scendo ad Acquarossa, prendo la corrispondenza che risale ad Olivone, ritrovo il mio zainetto, ancora e sempre lì dove lo avevo abbandonato e, poco dopo, riprendo il bus seguente per Biasca e, con lo stesso biglietto valido, arrivo a Bellinzona. Chi, come me a volte è distratto, non può lamentarsi del servizio e dei suoi autisti.

C’è tuttavia qualcos’altro che dimostra la differenza di mondo che trovo quando prendo la “corriera” in Valle, sono due semplici parole: “ciao, grazie!”. Inevitabilmente, instancabilmente, ad ogni fermata la portiera si apre e lascia scendere il suo abituale numero di passeggeri: che siano persone di mezza età, anziani attempati, uomini, donne o adolescenti più o meno ribelli, tutti lanciano all’autista un (a volte) sonoro : “ciao, grazie!”.  E questo tutti i giorni. Chi guida un autobus, qui, non è un semplice autista, ma il capitano di una nave che ringraziamo per averci portato a buon porto. Un capitano che non manca d’autorità, come mi è capitato di costatare un mattino sul bus delle sette e mezzo, quello degli scolari della scuola media. Alla guida, una giovane autista dal fisico esile e sportivo. L’orda di preadolescenti sale e occupa i posti con la caratteristica vivacità di quell’età, tra vociferazioni varie e virili conquiste del seggiolino. Improvvisamente esplode un fischio assordante, degno delle marmotte di Predasca, seguito a ruota da una voce femminile e imperiosa: “o vi calmate o vi lascio qui!”. Da quel momento, da Olivone ad Acquarossa avremmo anche potuto ascoltare la radio. La vita degli autisti e delle autiste non è certo facile, tra gli orari irregolari, le stagioni, le condizioni meteo e i passeggeri a volte scorbutici, a volte incivili, ma quel “ciao, grazie” che continua a risuonare ad ogni fermata conferma quanto la gente, qui, consideri “la corriera” come un vero e proprio servizio pubblico. Che sia questa la “prospettiva villaggio” di cui parla il Tarcisio su Voce di Blenio?



mardi 9 février 2016



Da Biasca a Erstfeld, l'ultimo sguardo dell'ultimo passeggero


E’ una domenica di fine gennaio.
Tra qualche mese, a inizio estate, avverrà l’inaugurazione della nuova galleria ferroviaria di base, segmento di quel progetto chiamato Alptransit. Ecco realizzato finalmente il vecchio fantasma sessantottino che voleva “radere le Alpi per vedere il mare”! Quest’autunno, poi, il traforo sarà definitivamente aperto al traffico quotidiano e, da quel momento in poi, passeremo tutti dal Grande Buco (cinquantasette chilometri sotto tremila metri di montagna). Chi viene da nord, arrivato ad Erstfeld, entra improvvisamente nel buio, che la luce interna del vagone renderà ancora più denso; per chi viene da sud, invece, è a Bodio che il panorama sparisce. Che ne sarà della vecchia linea? Quando le Ferrovie federali l’avranno tolta dal loro bilancio (dopo il 2017, pare!), il suo destino dipenderà da chi vorrà mantenerla in funzione (i Cantoni siti ai lati del passo del San Gottardo ?). Una cosa è certa, il paesaggio nel quale sfila ancora il treno, sparirà dalla memoria e, progressivamente, questo pezzo di territorio ai margini della Svizzera affonderà nell’oblio. Occhio non vede, cuor non duole, si dice in altre circostanze: tuttavia, ciò può valere anche qui, perché un paesaggio invisibile allo sguardo è un territorio inesistente. Sono cento trentaquattro anni che gli occhi di chi lo attraversa lo vedono e, certamente, il paesaggio di oggi non è più quello che appariva attraverso il finestrino del primo convoglio nel 1882. Ciò che guardiamo dai nostri treni chiusi, climatizzati e insonorizzati è un paesaggio contemporaneo. Perché non tentare di fissare nella nostra memoria quel mezzo percento di esistenza che gli resta ancora da vivere? Tentare, cioè, di salvarlo per chi non lo vedrà più? Io ci provo! ma invito a fare la stessa cosa chi sa fotografare e condividere, così,  l’ultimo sguardo dell’ultimo passeggero.

È una domenica di fine gennaio: sono le dieci del mattino.
Non ci avevo proprio pensato: man mano che io vado verso nord, lui, il sole, va inesorabilmente verso sud. Ecco che me lo ritrovo sempre negli occhi quando mi volto indietro per fotografare. I vetri sporchi, poi, fanno il resto! Dapprima me la prendevo un po’; poi, mi son detto che, in fin dei conti, quel che vedevo (o non vedevo) faceva parte di ciò che un viaggiatore poteva realmente osservare. Compresi i troppo numerosi riflessi che appaiono sul vetro, come le luci interne del compartimento, i poggia-testa rossi dei sedili, … Senza dimenticare le macchie di sporcizia sui vetri e le sfuocature dovute alla corsa del treno.

Su questa tratta, più che gli aspetti pittoreschi (che non mancano!), sono evidenti i segni di una trasformazione durata cento trentaquattro anni. Certo, le gole entro le quali passa il tracciato ferroviario sono sempre affascinanti. Tuttavia, ciò che l’occhio afferra rimanda sempre alla storia. Questo paesaggio, infatti, è coperto da una moltitudine di tracce. Tracce disparate di epoche successive che rivelano la costante attenzione portata a un territorio instabile, ma anche alla capacità di trarre profitto dalla sua stessa verticalità: terrazzamenti per coltivare due cereali in croce, centrali idroelettriche, tubazioni per alimentare le turbine produttrici di elettricità, fabbriche elettro-chimiche, fabbriche elettro-metalliche, pareti squadrate da cui furono tolte tonnellate di granito o, addirittura, colline nuove cresciute con l’accumulo del materiale roccioso proveniente dal traforo della galleria di base. E così via!


Tutto questo sfila dal finestrino del treno, rapido come il convoglio nel quale sono seduto. La velocità non permette all’occhio di fissare altro che effimere impronte di una storia sociale. Vien voglia di tornare sui luoghi, a piedi questa volta, per meglio rendere conto del quadro all’interno del quale il viaggiatore passava. Sarà un’altra storia, aspettando la “bella” stagione! 

Biasca: i treni passano
Bodio: da qui si entra nel (o si esce dal) Grande Buco




Biaschina, nord di Giornico: ferrovia, strada e autostrada alle prese con la gola.


Granitici muri di cinta di ferroviaria memoria

La ripida funicolare del Ritom e quel che resta del complesso del vecchio sanatorio

Si esce dal buco e la domanda è sempre quella sia da nord che da sud: che tempo farà?


Sussurra la montagna?
Dorme?
Ode la montagna?
Piange?
Canta la montagna?
Sogna?


Kraftwerk Amsteg: granito di Gurtnellen


Silenen: ieri ed oggi



Erstfeld: da qui si entra nel (o si esce dal) Grande Buco


1900

A travers les Alpes par le Chemin de Fer du Saint-Gothard,
di George L. Catlin, Zürich, Orell Füssli, 1900, pp. 24-26.

"Ad Erstfeld comincia la linea di montagna propriamente detta; la valle si restringe maggiormente fino a diventare una stretta gola . Il treno rasenta i bordi di spaventosi precipizi, passa su ponti e viadotti da cui lo sguardo si sporge su abissi, foreste e abitazioni sparse in fondo alla valle. Spesso scorgiamo i numerosi tornanti della strada postale che ci accompagna nella nostra ascensione. Ad Amsteg, ai piedi del Bristenstock usciamo da un tunnel sull'ammirevole viadotto arditamente piazzato ad un'altezza di 53 metri sulla gola che dà accesso alla Valle di Maderan; da lì la vista è da favola e imprime nella memoria un ricordo indimenticabile. Segue poi una serie di 17 tunnels di cui tre, quelli del Pfaffensprung, di Wattingen e del Leggistein sono elicoidali, una successione di viadotti di cui tre sono sovrapposti su un solo e medesimo torrente, la Meienreuss; e infine, superando il ponte gettato sopra il vertiginoso abisso dove ribolle la Reuss ad una profondità di 44 metri, raggiungiamo Goeschenen, all'entrata nord del grande tunnel scavato nelle interiora del Gottardo e che è, fino ad ora, il più grande tunnel del mondo."

E' un estratto (liberamente tradotto da me) della descrizione di un viaggio epicamente redatto dall'autore inglese George L. Catlin in una guida pubblicata da Orell Füssli nel 1900. Il rumore (il baccano?) del treno e il fumo della locomotiva di quell'epoca dovevano sicuramente contribuire a creare quell'atmosfera suggestiva di avventura ferroviaria. Odori e rumori che non ci sono più (magari anche per fortuna?) nei nostri vagoni odierni. Ecco qualche immagine di quel che vediamo oggi e che forse ha potuto vedere anche il nostro viaggiatore dell'inizio del XXo secolo, i fili e i piloni dell'alta tensione in meno.














lundi 3 juin 2013

Perché assegnare un nome ai luoghi



Perché assegnare un nome ai luoghi ?


“Da bambino, nelle mie scorribande toponomastiche che mi lasciavano senza fiato davanti all’atlante, giunsi alla conclusione che se quei favolosi nomi fossero scomparsi dalla carta, i luoghi stessi sarebbero scomparsi”[1]
L’uscita poco tempo fa di due nuovi volumi del “Repertorio toponomastico ticinese”  (Menzonio e Bodio, per esempio) e il successo di pubblico alle serate di presentazione meritano alcune riflessioni attorno, appunto, ai nomi di luogo.

a. La riscoperta dei nomi

In un processo di appropriazione territoriale (che si tratti di appropriazione semplice, di conquista o di riproduzione di uno spazio da parte di un gruppo o di un individuo nel tempo), la denominazione è uno dei primi atti fondatori. Il nome esprime una forma di conoscenza: esso fonda, nel frattempo, il tipo di relazione all’ambiente e la trasmissione in seno al gruppo del senso che ha (o dovrebbe avere) questa relazione.
La denominazione referenziale non differisce probabilmente dalle altre strategie designative quale macchina bellica per combattere la paura, per vincere il timore di ciò che non si conosce e che potrebbe in ogni momento riservare indesiderate sorprese, pericolose novità. Con parole di H. Blumenberg, "ogni fiducia nel mondo comincia con i nomi […]: dando alle cose il nome appropriato si eliminerà l'inimicizia tra di esse e l'uomo, trasformandola in un rapporto di pura utilità. Lo spavento che ha ritrovato la parola è già superato”.”[2]
Cercare ed inventariare vecchi toponimi, in un momento in cui stanno per essere persi perché le pratiche spaziali che fanno loro da supporto sono sparite (o quasi), è molto più di un approccio di ricerca storica: è rimettere o riaffermare – anche solo provvisoriamente e “virtualmente” – un nome ad un luogo. Un luogo senza nome genera timore, quindi, anche se ciò fosse artificiale (per esempio, un inventario che assuma in buona parte una dimensione di curiosità locale), la riscoperta attuale di vecchi toponimi può essere considerata un atto il cui scopo è di trattenere (riportare al sociale, riportare al gruppo, quindi) una relazione allo spazio che tende – oggi – a dilatarsi. Infatti, nulla impedirebbe oggi di utilizzare nomi di natura matematico-geometrica per designare i luoghi (il metalinguaggio dei sistemi d’informazione del territorio, per esempio, o la codificazione catastale)[3]. Espressi in quel modo – astratto, ma senza dubbio più preciso che non i termini linguistici e, soprattutto, di natura veicolare – significherebbe ammettere che il nostro rapporto allo spazio è diventato definitivamente astratto[4]. In altri termini, ciò significherebbe negare completamente il dialogo sociale con i luoghi: la morte del territorio, insomma! Ora, la toponimia riscoperta, anche se non è più d’uso corrente in seno al gruppo, ha il merito di ricordare alla memoria che il dialogo con il luogo di abitazione è di natura sociale. Prova ne è, l’interesse da parte del pubblico.
Possiamo quindi domandarci che senso abbia, allora, risuscitare i nomi di un tempo – essenzialmente rurali – in un territorio contemporaneo e, perciò, profondamente impregnato dai valori urbani. Facciamo una deviazione verso una riflessione più generale:
Si tratta allora anzitutto di sottrarre se stessi al pericolo di perdersi. Sapere in ogni momento dove si è, dove è cosa in rapporto a cosa e situarsi in qualche modo rispetto a tale rapporto, equivale a placare una sete antichissima e imperiosa di conoscenza. D'altronde, la deriva fisica è indissociabile dall'erranza psicologica: l'una appare, anzi, come il riflesso appena dissimulato dell'altra. Avere la consapevolezza della propria posizione, sapere come conservare questa consapevolezza durante gli spostamenti, contribuisce a fabbricare, puramente e semplicemente, il sistema di sicurezze su cui si fonda la personalità: orientarsi sulla superficie terrestre equivale ad esorcizzare lo smarrimento interiore. Si tratta, ancora, di creare le condizioni per una mobilità efficiente. Ciò vuol dire spesso che il riferimento minimizza i tempi dello spostamento, oppure la fatica; ma talora ciò vuol dire che il riferimento garantisce la sicurezza: funzione che in certi contesti – si pensi ad esempio all'universo nomadico – è assolutamente cruciale per la vita e la stessa riproduzione del gruppo.”[5]
 Se immaginassimo che il tempo storico è un percorso nomade che seguiamo nel territorio della Storia, potremmo allora assimilare il toponimo a quel punto di riferimento che ci serve ad evitare lo smarrimento: fintanto che il nome esiste, esiste anche la nostra pratica del luogo e noi con esso, fosse anche solo nell’immaginario. In questa analogia, lo spostamento del nomade, al quale fa allusione Turco, corrisponde all’evoluzione storica conosciuta dalle nostre società, le quali hanno abbandonato la loro natura contadina o rurale per diventare progressivamente urbane. La loro relazione allo spazio è così diventata, socialmente parlando, progressivamente più astratta. Riattivare antichi toponimi, significa identificare antichi indicatori che possono potenzialmente permettere di riorientarsi, anche solo momentaneamente. In termini più semplici, significa interrogarsi sul passato (attraverso il territorio) per sapere da dove si viene e capire dove si va! Questi vecchi toponimi possono diventare strumenti atti ad “esorcizzare il disorientamento interiore” di una comunità contemporanea.

b. la metamorfosi

Dal momento in cui il nome è un riferimento non solo spaziale, ma anche temporale, questo vuol dire che è di natura storica. Ogni nome riflette un luogo preciso, ma anche un momento preciso: a quale epoca, appunto, risale? I toponimi stessi conoscono un’evoluzione, sono dunque il frutto di trasformazioni o di ibridazioni dovute agli incroci di popolazioni ed al passaggio del tempo sui luoghi: ne può addirittura risultare un completo cambiamento di senso. Un esempio?
“Dal canto suo Génur (la prima documentazione sin qui nota riconduce all'anno 1375) è letteralmente una abbreviazione del termine cavàgia, cavagénur 'piccolo cavalletto, piccolo sostegno con relativa copertura di scisti'. Questa voce doveva in processo di tempo perdere la parte iniziale e dare appunto génur nel significato di 'piccola protezione, piccolo riparo montato su cavalletti, poi usato anche per l'uomo che passava l'estate all'alpeggio' […] In questa trafila di "rifacimenti" venne immesso anche Génur, che almeno a partire dal 1602  viene scritto Generoso, nel senso appunto di 'zona che ha a che fare con il Génur', ma anche per non pochi scrivani del tempo 'la zona generosa, bella'.”[6]
Insomma, se si risale al primo significato di questo nome, possiamo costatare, da un lato, come i termini si modifichino ortograficamente nel tempo e, dall’altro, come cambiando significato, continuino ad essere l’espressione di un rapporto sociale all’ambiente: nel XVII secolo, siamo in pieno in un momento dove il concetto di paesaggio ha affermato la sua legittimità che, in seguito, il turismo fisserà definitivamente fino ai nostri giorni. Il Monte Generoso è un luogo-faro del turismo svizzero e del paesaggio ticinese dalla prima metà del XIX secolo, ma soprattutto dalla costruzione della ferrovia Capolago-Monte Generoso, nel 1890[7]

c. Esplorare i nomi

Una conclusione a questo punto non avrebbe molto senso in quanto le righe precedenti sono riflessioni sparse attorno ad un tema sul quale, con altri colleghi, mi sto chinando. Tuttavia, bisogna pur sempre chiudere (conclusione: con-chiudere?).

Possiamo farlo pensando al perché “passeggiare” attraverso i nomi di luogo.

Prima di tutto perché i nomi di luogo sono parte integrante dei paesaggi: ed i nostri senza eccezione.
Poi, anche perché sono all’ordine del giorno. Non ci sono solo i vecchi nomi, ma siamo confrontati quotidianamente con operazioni di denominazione:
-         -  nuovi quartieri urbani, nuovi edifici (pubblici, ma anche privati), nuove strade o vecchie strade che assumono un nuovo nome, ecc.
-          - nuovi comuni nati da aggregazioni più o meno volute o imposte, con tutto il curricolo di conflitti e di polemiche che coinvolgono gli abitanti.

Ognuno di questi casi ha la sua caratteristica perché i designatori (di nomi) sono diversi:
-         nel primo caso, spesso, è l’autorità comunale o cantonale che ne è l’attore principale;
-          nel secondo caso, il ruolo della popolazione è più importante perché sono gli abitanti ad esserne coinvolti  sfociando alla fine in una votazione popolare.

Come si vede, i toponimi non sono solo storie di una volta, “anticaglie” nostalgiche, ma sono fatti di attualità. Oggi, poi, abbiamo strumenti dinamici in grado di riattivare la memoria sociale, quella dei (vecchi o nuovi) abitanti dei nostri comuni: nomi “cristallizzati”, interiorizzati attraverso l’esperienza sociale (e dunque storica) dei luoghi. Numerosi sono i ricercatori e i servizi implicati in progetti il cui scopo è di trasporre nello scritto un’oralità vernacolare come per esempio i “repertori toponomastici” o gli “archivi di nomi di luogo” o, ancora,  i progetti di “georeferenziazione”. Tutte queste iniziative[8] vanno oltre il semplice glossario: trasponendo queste informazioni nei sistemi d’informazione del territorio, si possono raggruppare e localizzare i nomi di luogo, l’iconografia (immagini fotografiche od altro), la cartografia, il rilievo, gli elementi di evoluzione del paesaggio. In altri termini, il valore antropologico assunto dai luoghi e quindi dall’ambiente.





[1] RUMIZ Paolo, 2007, La leggenda dei monti naviganti, Milano, Feltrinelli, p. 313.
[2] TURCO Angelo, 2010, Configurazione della territorialità, Milano, Franco Angeli, p. 90.
[3] Assomiglierebbe un po’ a quei termini usati per identificare i geni o i virus in medicina. Tuttavia, in Svizzera in ogni caso, le regole dell’Ufficio federale di topografia favoriscono (ancora) l’uso di termini vernacolari per la trascrizione dei nomi di luogo sulle carte.
[4] Si perderebbe, così, il nostro statuto di abitante per non essere nient’altro che degli inquilini su di un territorio che non ci apparterrebbe più.
[5] TURCO Angelo, 2010, op. cit., pp. 90-91.
[6] LURATI Ottavio, “Nomi dati dalla gente ai luoghi sul Generoso e in Val di Muggio”, in CRIVELLI Paolo, GHIRLANDA Silvia (a cura di), 2011, La scoperta del Monte Generoso, Cabbio, Museo Etnografico della Valle di Muggio, Locarno, Armando Dadò editore, pp. 169-170.
[7] Cf. FERRATA Claudio, 2008, La fabbricazione del paesaggio dei laghi, Giardini, panorami e cittadine per turisti tra Ceresio, Lario e Verbano, Bellinzona, Casagrande edizioni, 213 p.
Cf. CESCHI Raffaello, “Il Rigi della Svizzera italiana”, in CRIVELLI Paolo, GHIRLANDA Silvia (editeurs), 2011, La scoperta del Monte Generoso, Cabbio, Museo Etnografico della Valle di Muggio, Locarno, Armando Dadò editore, pp.23-28.
 [8] Che alcuni politici (ticinesi « veri ») sembravano recentemente trovare inutili al punto da tagliar loro i “viveri”!

vendredi 16 novembre 2012




Toponimie : eredità ?
[Parte di queste riflessioni sono state pubblicate sulla Revue de Géographie Alpine, nella rubrica Lieux-dits.]




 Nel 2008, Mauro Corona pubblica un libro il cui titolo è I fantasmi di pietra. In questo suo libro racconta storie di vita del suo villaggio, Erto, nella regione del Vajont, distrutto dall’alluvione del 1963 e praticamente abbandonato da allora. (cf. anche : Roubault Marcel, 1973). Con il pretesto di una visita sui luoghi della sua infanzia, di cui non restano che le rovine delle case e delle piazze, l’autore si sofferma in questo o in quel luogo e racconta : racconta spezzoni di una vita passata i cui protagonisti sono gente ordinaria della montagna. Incrocia i resti di pietra, dove la traccia delle intemperie si mescola con la vegetazione spontanea che a volte racchiude queste case e a volte le penetra dall’interno. Queste pietre sono i fantasmi di un passato che vive nella sua memoria, quello della sua adolescenza e della sua gioventù. Ad ogni angolo di strada, i fantasmi prendono la forma di un ricordo preciso (avventure dell’adolescente che scopre le prime spinte di testosterone, avventure del giovane bracconiere e della sua banda di compagni, ecc.). Insomma, dietro queste pietre, si cela una vita di villaggio di montagna che non è facile capire se non la si è condivisa e che, oggi, può anche scandalizzare l’anima verde dei cittadini benpensanti che siamo diventati. La fotografia qui sopra non è una pietra  di fantasmi da estrarre dal passato, ma mi sembra poter assumere una funzione equivalente, o per lo meno evocarla. E’ uno spezzone di memoria del territorio. Mi spiego !

Nella sua pubblicazione, Verso una teoria geografica della complessità (1988), Angelo Turco definisce il processo di appropriazione territoriale (la « territorializzazione ») attraverso tre « momenti » : la denominazione, la reificazione e la strutturazione. La reificazione, intesa in senso largo, non si applica solo alla costruzione di stabili o di strade, ma anche ad altri tipi di utilizzo del territorio, soprattutto in montagna, dove alpeggi e pascoli, per esempio, sono il risultato della trasformazione e della riproduzione di un ambiente. La denominazione è, senza dubbio, uno dei primi atti che un gruppo umano relizza identificando gli oggetti (e in senso largo, i luoghi) di cui si serve. La strutturazione delle pratiche spaziali si appoggia sulla coerenza esistente  – e fino a che esiste – tra il nome e gli oggetti. Il toponimo diventa allora un oggetto interessante per la geografia storica (alpina, per quel che mi concerne) nella misura in cui è un « resto » che costituiva una territorialità. Tuttavia, si tratta di una fonte fragile, perché da un lato il suo supporto non è la pietra, ma la memoria (collettiva o individuale) e, dall’altro, anche quando essa è iscritta da qualche parte, come sulla carta topografica per esempio, viene deformata dai criteri propri all’elaborazione della carta.

Nel nostro esempio, questa fragilità della memoria territoriale è particolarmente visibile quando si confronta il luogo fotografato con la carta topografica. Questa, anche considerando una superficie più larga di quella che si potrebbe delimitare a partire dall’immagine, indica solo due misure d’altitudine e il nome della montagna (Sosto), al quale si può ancora aggiungere due o tre altri nomi – in italiano – che suggeriscono una caratteristica generica del terreno (« Boschetto » ; « Parete di Pino », ecc.). Nel cartello fotografato, la medesima montagna è invece ricoperta da una quantità fenomenale di nomi (una trentina sulla parete propriamente detta e più di una cinquantina in tutto) : ogni angolo porta un nome, espressione della pratica spaziale di una comunità per la quale anche il più piccolo filo d’erba era vitale, soprattutto per la sua componente sociale più povera. In queste comunità montane non si esitava a salire sui luoghi più impervi e pericolosi per tagliare e raccogliere il fieno, non raramente a rischio della propria vita, come testimoniano i numerosi ex-voto che possiamo ancora vedere in chiese locali. Questa fotografia è dunque interessante nella misura in cui ci informa sull’utilizzo dello spazio da parte di una società (agraria, montana e tradizionale, nel nostro caso) : un vero e proprio uso capillare. È pure interessante nella misura in cui ci informa sull’atto di denominazione : un atto essenzialmente funzionale e pratico (non vi è nessuna misura astratta, come quella metrica alla quale siamo oggi abituati). Non conosco il significato di tutte le parole, perché qui abbiamo a che fare con una toponimia vernacolare, ma riconosco alcuni termini dialettali che sono anche i miei : il nome del luogo riflette la propria natura, come « Ra Buza », che rimanda ad uno scoscendimento ; « dul castell » che rimanda ad un castello (e in quel posto vi era, nel Medio Evo, una torre appartenente ad un signore di un’altra valle), o ancora, termini come « Pareit » e « Sott Pareit », dove il termine « Sott » indica la posizione (sotto), ecc. In altre parole, il nome informa su una società nella quale la conoscenza è strettamente legata alla pratica. Si sa perché si fa : colui che non è del luogo (del gruppo !) non ne conosce il nome perché non lo pratica.

Tutta questa toponimia non esiste praticamente più oggi perché le pratiche che la sottendevano non esistono più. Ma questi nomi sono fantasmi che informano sull’uso del territorio e questo cartello ha tanto più valore in quanto qualcuno ha voluto ricordarsi della ricchezza umana di questo pezzo di spazio, in altre parole, ha voluto ricordarsi della sua territorializzazione. «La territorializzazione è dunque un grande processo, in virtù del quale lo spazio incorpora valore antropologico ; quest’ultimo non si aggiunge alle proprietà fisiche, ma le assorbe, le rimodella e le rimette in circolo in forme e con funzioni variamente culturalizzate […]» scrive Angelo Turco. Il nome è l’espressione del valore antropologico. 

Ma c’è anche di più :

« Da bambino, nelle mie scorribande toponomastiche che mi lasciavano senza fiato davanti all'atlante, giunsi alla conclusione che se quei favolosi nomi fossero scomparsi dalla carta, i luoghi stessi sarebbero scomparsi. Era un'intuizione corretta: un luogo senza nome cessa di esistere. Per questo sono ancora attaccato alle carte: servono a impedire la cancellazione della memoria. […]Un popolo senza senso della  geografia  è destinato a uscire anche dalla storia.  (Rumiz, p. 312) »
Quando Rumiz (2011, Milano, Feltrinelli) parla delle vecchie  carte è nel senso del supporto di memoria che esse possono rappresentare, perché non è tanto alle carte che si riferisce, ma ai nomi iscritti su di esse. Far parlare la toponimia vernacolare, oggi, significa resistere alla morale dominante che, col pretesto di « ridare » alla natura certi spazi montani, cancella la storia delle loro popolazioni. Così facendo, essa maschera il fatto che ogni spazio detto naturale – soprattutto oggi – è uno spazio umanizzato. Ho avuto modo di vedere questo atto di resistenza implicita percorrendo la Val Cama, all’entrata sud della Mesolcina : in questa valle, trasformata in riserva forestale (dove quindi, in linea di principio, ne è bandito l’uso da parte degli esseri umani), si scoprono, lungo il sentiero, cartelli che indicano il nome del luogo e una breve spiegazione sulla sua origine (etimologica, fattuale o leggendaria). Qualcuno, in maniera modesta certo, ha voluto anche qui ricordare il valore antropologico nascosto dietro lo spazio e mantenerne la memoria. I « resti » (materiali o immateriali) della memoria territoriale non sono il territorio, bensì i segni di un territorio : sta a noi decifrarli e assegnar loro un senso. Possono così  diventare terreno d’incontro tra la geografia, il turista e l’abitante attraverso uno scambio basato sul rispetto reciproco o, più semplicemente, sul rispetto delle culture (a cominciare da quelle – nostrane – che ci hanno preceduto nel tempo).

Riferimenti

Mauro CORONA,2008, I fantasmi di pietra, Milano, Mondadori.

Marcel ROUBAULT, 1973, Les catastrofi naturali sono prevedibili, Alluvioni, terremoti, frane, valanghe, Piccola Biblioteca Einaudi 208, Torino, Einaudi.

Paolo RUMIZ, 2011, La leggenda dei monti naviganti, Universale Economica Feltrinelli, Milano, Feltrinelli.

Angelo TURCO, 1988, Verso una teoria geografica della complessità , Milano, Unicopli.





vendredi 2 novembre 2012

Il fiume Ticino


Promemoria per un viaggio prossimo


Ci stavo proprio pensando ora : in fondo, quel fiume mi sta attorno quasi da quando son nato : è stato punto d’incontro per giochi infantili e adolescenziali, complice di amori o compagno di avventure giovanili, sentiero liquido per imparare e praticare la pesca. Ma solo ora mi dico che non mi è ancora servito da pretesto per un’escursione vera e propria. Gianni Celati, nel suo « Verso la foce » (Universale Economica Feltrinelli, 2011) viaggia lungo il Po ; Paolo Rumiz, nella sua « Leggenda dei monti naviganti » (Universale Economica Feltrinelli, 2011)  ha percorso dapprima le Alpi e poi gli Appennini : perché allora non tentare – a tappe – di domandare a questo fiume di essermi da guida dalle sue sorgenti alla foce (o l’inverso) ?

Tanto per mettere le basi di un probabile futuro viaggio lungo questo fiume, eccone una prima esplorazione sotto forma di note più o meno strutturate. Queste note, prese qualche tempo fà, sono poi sfociate in un testo più ristretto per la voce « fiume Ticino » del Dizionario Storico della Svizzera, a sua volta condizionato per l’uso proprio di quella pubblicazione.

Il suo percorso

Il fiume Ticino (il cui nome, tasín, tesín, di origine prelatina, significa semplicemente … corso d’acqua : termine ancora in uso in documenti del XIIIo secolo) attraversa da nord a sud l’omonimo Cantone, il cui toponimo viene attribuito nel 1798). Dopo un percorso di circa 90 chilometri entra nel Lago Verbano in quella che oggi è la zona paludosa protetta delle Bolle. A Sesto Calende, in Provincia di Varese (Italia) il Ticino esce dalle acque lacustri e riprende la sua apparenza di fiume per 110 chilometri prima di congiungersi con il Po, fiume piemontese e padano che lo accoglie nelle sue acque a Linarolo, sotto Pavia, per portarlo con sè fino al mare.

Come spesso capita nelle Alpi, anche per il fiume Ticino non vi è un solo ed unico  punto di origine. La sua vita inizia sul colle della Novena, passo che collega il Canton Vallese con il Canton Ticino, ad un altitudine di 2'400 metri sul mare. Dopo aver percorso la Valle Bedretto, incontra, ad Airolo, il suo secondo ramo che scende dalla valle della Tremola e la cui origine si trova nei pressi del passo del San Gottardo, colle ticinese che collega i due cantoni del Ticino e di Uri. Da Airolo a Rodi-Fiesso, il fiume trova un tratto più riposante, disturbato solo dalla strettoia dello Stalvedro. A Rodi, dove una volta viandanti e merci incontravano il Dazio Grande, il nostro fiume precipita nella gola del Piottino. Ritrovata una pendenza più regolare, attraversa Faido continuando verso Lavorgo dove affronta, di nuovo, un paesaggio più stretto e impervio immergendosi quindi, ai piedi di una frana preistorica (staccatasi probabilmente dal fianco sinistro) nella gola della Biaschina. Poco più sotto incontra la località di Giornico e, da qui in poi, uscito dalle montagne del massiccio del Gottardo, non troverà più ostacoli maggiori, fino alla sua entrata nel lago, 46 chilometri più a valle.
I suoi principali affluenti, al di là degli innumerevoli ruscelli che scendono dai versanti della valle principale e dalle sue valli laterali, sono essenzialmente tre :
- il fiume Brenno – che anticamente portava anch’esso il nome di tesígn de Bregn e che autori dell’Ottocento non esitavano a considerare il terzo ramo d’origine del fiume – alle porte di Biasca, dove  termina la parte montana propriamente detta del nostro fiume ;
- il fiume Moesa, che scende dal passo grigionese del San Bernardino immettendosi nel Ticino alle porte di Bellinzona ;
- il fiume Morobbia, a sud di quella città, da dove il Ticino diventa un vero e proprio fiume di pianura inoltrandosi sul Piano di Magadino.

Il suo profilo.

Il suo percorso ticinese, snodandosi su una novantina di chilometri dal colle della Novena a 2'400 metri circa di altitudine ai 193 metri del Lago Maggiore, ha quindi una pendenza generale del 25 per mille. Questa pendenza media, che sottolinea il carattere montano del fiume, non deve però trarre in inganno perché il corso d’acqua ha un profilo molto più variato, passando progressivamente, ma con salti successivi, dalla montagna al piano. Dal passo della Novena alla confluenza con la Val Prosa, alla base del colle, il passaggio dai 2'400 metri ai 1'940 su poco più di 3 km si effettua con una pendenza (la massima) del 163 per mille. In valle Bedretto, con i suoi 14 chilometri, il fiume arriva alle porte di Airolo con una pendenza media del 55 per mille. La Valle Leventina viene allora attraversata con pendenze varianti tra il 15 e il 23 per mille : 17 per mille su 14 chilometri da Airolo a Rodi ; 23 per mille sulla decina di chilometri del tratto che passando da Faido porta a Lavorgo e 15 per mille sugli 11 chilometri che separano il percorso dal Ticinetto (affluente proveniente da Chironico sul versante destro,  prima di Giornico) a Biasca. Fra le tre parti della Leventina (Alta, Media e Bassa valle) la topografia impone due salti notevoli : 98 per mille lungo poco più di un chilometro nel Piottino e 65 per mille su poco più di 2 chilometri nella Biaschina. Abbandonato il profilo montano propriamente detto, dopo la congiunzione con il fiume Brenno, il Ticino diminuisce progressivamente il suo profilo : 3,1 per mille sui 18 chilometri che separano il Brenno dalla Morobbia ; 2,50 per mille lungo i 6 chilometri e mezzo che portano alla Moesa ; 2,3 per mille sui 10 chilometri e mezzo da qui al lago.

Il fiume risorsa

Nel passato (medievale soprattutto), i traffici commerciali evitavano le gole del Piottino e della Biaschina seguendo rispettivamente la via che da Prato saliva a Dalpe per poi ridiscendere a Faido e quella che passava da Chironico, Grumo e Altirolo, prima di raggiungere Giornico. Sarà nel corso del XVI secolo che gli Urani apriranno una via attraverso le due gole (prima il Piottino, istituendo quel che oggi chiamiamo ancora il Dazio Grande e più tardi la Biaschina) (cf. Sargenti, 1994)

Oggi il fiume Ticino riesce ancora, a volte, a mettere in allarme popolazione e autorità (come pure continuerà a farlo nel futuro), tuttavia siamo lontani dal suo percorso disordinato ed impetuoso, ancora caratteristico della fine del XIXo secolo da quando le sue acque sono state progressivamente « addomesticate », sia attraverso i lavori di canalizzazione che attraverso il controllo dei flussi avvenuto con le centrali idroelettriche. Nel 1868, la portata massima misurata a Bellinzona fu di 2'500 metri cubi al secondo (Knapp, Borel, 1908) : i dati odierni (osservazioni dal 1921 al 2008) forniscono valori estremi più bassi, con un massimo eccezionale di 1500 metri cubi nel 1927. Nel medesimo periodo, sempre a Bellinzona, la portata media è di 68 metri cubi al secondo, mentre quella minima e quella massima sono state, rispettivamente, di 33 e 107 metri cubi al secondo. Il fiume Ticino, nella sua parte ticinese, non è mai stato navigabile, tuttalpiù usato ancora nella prima metà dell’Ottocento, per il trasporto galleggiato del legname legato a zattere (detto « flottazione ») a partire da Giornico-Bodio durante lo sciogliersi delle nevi.

Il fiume entra nella modernità contemporanea nel corso del XIXo secolo, dapprima con la sua sofferta correzione e poi con l’uso idroelettrico delle sue acque. Le prime proposte di correzione del percorso del Ticino sorgono nel primo decennio dell’Ottocento. Nel 1875 viene inaugurata la linea ferroviaria di Locarno, rendendo così necessario mettere fine alle disordinate divagazioni del corso d’acqua. Nel 1885 viene presentato un progetto, il cui finanziamento pubblico verrà bocciato in votazione popolare. Nel 1886, in risposta alla bocciatura viene creata la Fondazione del Consorzio Correzione Fiume Ticino e nel 1888 iniziano i lavori che dureranno fino al 1939 con un investimento di più di 11 milioni di franchi. Se la correzione del fiume può essere considerata terminata, nuove valutazioni e nuove norme di sicurezza impongono sempre nuovi adattamenti soprattutto davanti alle trasformazioni di tutta la zona. L’incanalamento del fiume aveva permesso di trasformare il Piano di Magadino in una nuova risorsa recuperando terreni per un’agricoltura moderna, ma questi stessi terreni subiscono, oggi,  la concorrenza delle altre attività insediative (abitazioni, vie di comunicazione, centri commerciali, ecc.).

Se non l’acqua del fiume direttamente, quelle dei suoi affluenti più montani sono state (e lo sono tuttora) oggetto di sfruttamento tramite prelievi per la produzione dell’energia idroelettrica. Nel Cantone Ticino (cf. L’Ambiente in Ticino, 2003 pp. 102-104) si contano ben 118 punti di prelievo di cui 114 nel Sopraceneri : di questi più della metà si situa nel bacino idrografico del fiume Ticino e l’importanza di questi prelievi è visibile sul tratto leventinese del fiume fino a Personico. Il caso del Brenno, il primo grosso affluente è interessante perché illustra il peso dei prelievi : prima della costruzione e della messa in funzione degli impianti OFIBLE (Officine idroelettriche Blenio) : la portata « naturale » era di circa 18 metri cubi al secondo e dopo gli inizi degli anni Sessanta, scese a 5 metri cubi al secondo. L’acqua risorsa idroelettrica fondamentale per la vita economica viene a scontrarsi, oggi, con l’acqua risorsa per l’ambiente e la vita sociale (esercizio della pesca, per esempio). A titolo di esempio, alla presa di Rodi, il deflusso minimo garantito dall’Azienda Elettrica Ticinese (cf. L’ambiente in Ticino, tabella 2.4 p. 106) è di 300-500 litri al secondo : poco più sopra, a Piotta, la stazione di rilevamento misura per il periodo 1969-2008 una portata media annua di 2,31 metri cubi al secondo (la più piccola, nel 2006, fu di 1,09 metri cubi e la più grande, di 6,14 metri cubi nel 1978). La prima centrale fu quella della Piumogna,  affluente che raggiunge il Ticino a Faido, in Valle Leventina, costruita nel 1889. A seguito del grande sviluppo degli anni che hanno seguito la Seconda guerra, oggi, sul percorso del fiume vi son ben 14 centrali idroelettriche che producono circa 748 MegaWatt, corrispondenti alla metà della produzione e delle centrali cantonali.

Se i deflussi minimi sono sempre stati oggetto di discussioni e periodicamente riproposti al tavolo delle concessioni, la coscienza ambientalistica odierna solleva un altro problema inerente la gestione del flusso : la sua variazione ! I repentini aumenti e diminuzioni dei rilasci per motivi legati al funzionamento degli impianti idroelettrici modifica le condizioni ambientali per la fauna ittica a valle dei punti di restituzione. Questi deflussi massimi, improvvisi, possono minacciare le speci presenti e le loro condizioni di riproduzione.

Il fiume Ticino, come la maggior parte dei fiumi svizzeri, è un elemento naturale sempre più immerso in un universo urbanizzato : da risorsa economica importante, diventa sempre più elemento strutturale nell’organizzazione del territorio, soprattutto del Sopraceneri.

Bibliografia :

Knapp Ch., Borel M., 1908, Dictionnaire géographique de la Suisse, Neuchâtel, Attinger Frères Editeurs, pp. 645-650.
Franscini St., 1987 (1837) La Svizzera Italiana, (a cura di V. Gilardoni), Bellinzona, Edizioni Casagrande, Vol. Primo, p. 100.
Lavizzari L., 1988 (1859-1863), Escursioni nel Cantone Ticino, (a cura di A. Soldini e C. Agliati), Locarno, Armando Dadò Editore, pp. 285-295.
Vetterli L., 2005, « Il problema dei deflussi massimi », in Pro Natura Ticino No. 3, gennaio 2005 pp. 3-5.
Gemnetti e Pedroli, 1963, Il Cantone Ticino, Bellinzona, Istituto Editoriale Ticinese, 110 p.
Minor H.-E. e Hager W.H., 2004, Ingegneria fluviale in Svizzera, Sviluppo e prospettive, Vol. 6, Società dell’arte e dell’ingegneria civile, Zurigo, Stäubli AG, pp. 74-91.
Buratti V., Fumagalli G., Mavero F., 2003, Ticino, il fiume azzurro, Oggiono-Lecco (Italia), Cattaneo Editore, pp. 177-179.
Cantone Ticino, 2003, L’ambiente in Ticino, Vol. 1 Stato e evoluzione, Rapporto cantonale sulla protezione dell’ambiente, Dipartimento del Territorio, Divisione dell’Ambiente, Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo, pp. 102-104.
Lurati O., 1976, Dialetto e italiano regionale nella Svizzera italiana, Lugano, Banca Solari & Blum S.A. Lugano, pp. 90-91.
Cantone Ticino, Ufficio dell’energia, www.ti.ch/energia, cartine diverse e dati vari.
Sargenti W., 1994 (1963), Geografia del Cantone Ticino, Fascicolo 2 : Quaderni per lo studio della posizione, Quaderno No. 2 : La Valle del Ticino, Bellinzona, Edizioni Casagrande.



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mercredi 24 octobre 2012

Valle di Cama


Lago di Cama : briciole di memoria territoriale



Il contesto è quello della solita banda di « soci » che ogni anno si ritrova per una camminata, una notte di racconti, ricordi e canzoni, e uno o due buoni pasti. Anche quest’anno le cose sono andate così e, come ogni anno, un luogo diverso : questa volta tocca al Lago di Cama. Un laghetto naturale (nella misura in cui non è stato cinturato da un muro convesso di cemento) in fondo alla Val Cama. E come il nome indica, si parte dalla località mesolcinese di … Cama.

Già prima di arrivare in quella località, qualcosa colpisce : lungo la strada per recarsi a Cama (a volte accanto, a volte sotto le ruote) scorrono i binari di una ferrovia. E’ la vecchia BM, la Bellinzona-Mesocco, smantellata come tante altre, spinte all’obsolescenza dallo sviluppo automobilistico e di cui restava, fino a poco fà, solo un segmento, da Castione a Cama. Ma anche quest’ultimo pezzo, oggi, è diventato silenzioso. E’ sicuramente inutile farsi illusioni nostalgiche, perché il traffico passeggeri oggi sostituito dall’autopostale presenta pure i suoi vantaggi, non da ultimo quello di partire vicino alla porta di casa. Al di là della nostalgia (a cui tutti si ha diritto, perché è un sentimento umano) resta il fatto che il mantenimento e l’ammodernamento delle linee secondarie (anche la BM quindi) avrebbero potuto rappresentare un supporto infrastrutturale per la mobilità urbana degli agglomerati. E’ sicuramente facile, col senno di poi,  dire che si sarebbe dovuto pensarci, ma l’attuale proposta federale di riflettere sullo smantellamento di 175 ferrovie secondarie (locali, avrei voglia di dire) sembra mostrare che neppure oggi – che  gli agglomerati sono la realtà presente nella quale viviamo – si sia preso coscienza dell’importanza della mobilità ferroviaria (ferrovie a diversi scartamenti, tram, ecc.). E’ evidente, poi, che prendendo in considerazione le attuali situazioni finanziarie di Confederazione e Cantoni, aggiunte ad un clima politico imperniato alla chiusura e all’opposizione a qualsiasi progetto, alcune di quelle linee sono veramente destinate a sparire. Tuttavia, la proposta ha un pregio : quello di obbligare a riflettere in termini di mobilità urbana, considerando tra l’altro che un trenino di campagna fa parte anch’esso di un modo di vita urbano (pendolarismo, turismo, ecc.). L’argomento redditività non è da sottovalutare, siamo d’accordo: ha senso infatti mantenere in piedi un’infrastruttura pagata in (buona) parte anche da chi non la usa ? Ma non bisogna dimenticare la domanda opposta : quante sono, nelle città o negli agglomerati,  le linee urbane propriamente dette che non sono deficitarie o che raggiungono il 50 % di redditività? Anche qui, una parte dei costi viene sostenuta da chi non è utente e tanto meno abitante. Questa prima parte del XXIo secolo è quella dei trasporti collettivi nella maggior parte dei flussi di mobilità individuale (fosse anche solo per il costo del carburante) e sarebbe ora che chi ne ha la reponsabilità cominciasse a progettare in questi termini.  Sia la mobilità quotidiana della popolazione che la popolazione stessa sono destinate ad aumentare nei decenni a venire, e non saranno le ossessioni antidemografiche, che si stanno manifestando in misura diversa in tutti i partiti politici, ad impedire queste crescite. E’ in questi termini che dovrebbero essere analizzati i 175 tronchi ferroviari nel mirino della Confederazione : almeno così, anche la scomparsa della BM sarà servita a qualcosa. Ma torniamo sui nostri passi.

Ci si infila quindi sul sentiero per affrontare i trecento (primi) metri di dislivello fatti praticamente tutti a scalini prima di entrare decisamente nella valle vera e propria. Ma anche qui non si sfugge alla ferrovia : numerose sono le traversine metalliche che servono a sostenere e a rinforzare gli scalini. Riciclaggio intelligente, certo, ma anche scampoli di memoria sparsi nel territorio. Non sono andato nei dettagli, ma non sarei sorpreso di trovare nelle cascine di quei monti altri pezzi di ferrovia, come pure negli orti degli abitanti dei villaggi sottostanti.

Un fruscío attira l’attenzione. E’ una lucertola che sta pranzando : dalla bocca sporge un lombrico quasi più grande di quel rettile preistorico. Si resta un bel momento ad osservarla, tento qualche fotografia, ma manca una buona luce. Il tempo di piazzare il treppiedi e la lucertola se ne andrebbe. Allora provo a mano libera : il risultato è pessimo. Pazienza. Allora si continua la salita.

Camminando mi viene in mente una notizia di cronaca letta due giorni prima, nella quale si raccontava dell’incidente dove avevano perso la vita un guardiacaccia in pensione e il suo amico lungo un banale sentiero di montagna in seguito alla caduta di un sasso. Non ho finito di raccontare che davanti a noi scopriamo un sasso appoggiato alla ringhiera del sentiero : guardando sul lato opposto si scopre la recentissima ferita nella roccia da dove si era staccato e altre fessure pronte a dar piena licenza agli effetti gravitazionali. La verticalità non è solo un concetto e il sentiero è una traccia incisa nel contesto della verticalità. Tutto quel che ci sta attorno, in questo bosco dove piante e pietre si mescolano, ci ricorda la dinamica della verticalità e il sasso, fresco di caduta, sottolinea il fatto che siamo immersi nella continuità del tempo. E’ strano come solo la presenza di qualcosa « fuori posto » ci permetta di capire che la natura non è a-temporale. Un sentiero sopra un sasso è segno di stabilità : un sasso sopra un sentiero introduce una dissonanza, un disordine che rivela l’instabilità delle cose. In un certo senso, quel masso fresco di caduta è una metafora del mondo e dell'attualità nella quale viviamo, imperniata al rifiuto sistematico (o semplicemente alla volontà di rifiuto) delle trasformazioni.  Un rifiuto puramente declamatorio, perché se fosse possibile fermarsi, avremmo inventato l’eternità.  

Lungo il sentiero, ad intervalli irregolari, appaiono piccole targhette che ricordano il toponimo del luogo sul quale si sta transitando, fornendo una breve spiegazione dell’origine o del perché attraverso l’etimologia o l’allusione a fatti avvenuti o leggendari. Ci troviamo così davanti ad una toponimia vernacolare, spezzoni di memoria locale che qualcuno ha voluto mettere in rilievo per mantenere presente parte di quella pratica della montagna ormai sparita. Non potendo fermare il tempo, possiamo almeno creare un legame di continuità tra chi, prima, viveva di (e in) quella montagna e chi, oggi, vive con quella montagna. Questa continuità è interessante nella misura in cui rappresenterrebbe una forma di resistenza contro l’oblío, oggi rafforzato dal fatto che  questa foresta è diventata una riserva, uno spazio cioè dove lo sfruttamento da parte degli esseri umani è bandito. Sparendo l’uso di un territorio, sparisce pure a lungo andare anche il nome. Marcare i luoghi con i nomi (locali) di origine (anche se si tratta dell’ultimo toponimo dopo una lunga trasformazione nel tempo o anche solo del risultato di una leggenda) è una maniera per ricordare quanto l’ambiente sia legato alla storia delle società e quanto l’ambiente « naturale » sia sempre una scelta sociale. «La rose d’autrefois existe en tant que nom, il ne nous reste que des noms nus», così termina il film « Le nom de la rose » di Jean-Jacques Annaud citando la fine dell’omonimo libro di Umberto Eco. Non saprei quale senso esatto Eco volesse dare a questa frase, ma nel nostro contesto essa si applica bene alla toponimia, soprattutto a quella vernacolare. Il toponimo espressione di una pratica territoriale ad un dato momento della storia è il nome di quella pratica. Oggi questa è sparita e a noi rimane solo un nome : un nome nudo. Marcandone la presenza nello spazio, lo rivestiamo impedendone lo scioglimento nell’oblío. Come per i vestiti però, non tutti gli abiti sono adatti : resta quindi sempre aperto il problema dell’uso che si vuol fare di questi « ricordi ».

E per finire, il solo piacere degli occhi e della camminata.